#BecomingJane 14: il ritorno in famiglia
Affrontiamo oggi il primo, grande tema che permea il romanzo incompiuto I Watson, un tema che Jane Austen riprenderà in uno dei romanzi compiuti successivi – Mansfield Park: il ritorno in famiglia.
“Miss Emma Watson, rientrata in famiglia dopo esser stata affidata alle cure di una zia che l’aveva cresciuta, stava per fare la sua prima apparizione pubblica tra i vicini.“
Ecco come ci viene presentata l’eroina del romanzo. La situazione di cambiamento appare evidente, ma non sorprende se diamo uno sguardo all’elemento biografico dell’autrice: Jane Austen si era da poco trasferita a Bath, passando da un luogo che amava, nel quale era nata e dove si sentiva perfettamente a proprio agio (Steventon) ad uno nel quale non era in grado di sopportare nulla. In che modo riportare tale sentimento in un romanzo? Jane Austen non trova stratagemma migliore che quello di portare la sua nuova protagonista da una condizione di agiatezza e serenità (Emma Watson aveva difatti trascorso quattordici anni insieme alla zia, Mrs. Turner, una donna molto ricca. Rientrando in famiglia, la protagonista si vede costretta ad abbandonare la propria facile condizione benestante per affrontare la realtà dello status dei Watson), ad una di completo smarrimento ed inadeguatezza:
In camera del padre Emma era al riparo dalle terribili mortificazioni di una condizione sociale non adeguata a lei, e dalla discordia familiare: la durezza di cuore provocata dalla ricchezza, la presunzione di una mente limitata e l’ostinata stupidità di un carattere impossibile. Soffriva ancora pensando alle loro esistenze; nel ricordo e in previsione del futuro ma, almeno per il momento, non potevano nuocerle. Disponeva del suo tempo, poteva leggere e pensare, anche se nella sua situazione era difficile trarre sollievo dalla riflessione. I problemi insorti con la perdita dello zio non erano trascurabili né c’era la possibilità che si risolvessero; […]Il cambiamento del suo stile di vita e della sua condizione familiare, causato dalla morte di una persona cara […], l’avevano davvero messa a terra. Se prima ella era stata l’obiettivo principale delle speranze e della sollecitudine di uno zio che aveva plasmato il suo animo con la dedizione di un genitore, e dell’affetto di una zia amorevole che gioiva nel soddisfare tutti i suoi desideri, se era stata la vita e lo spirito di una casa, dove tutto era confortevole ed elegante, e ciò che l’aspettava era una tranquilla indipendenza, ora non contava più nulla per nessuno: era un fardello per coloro che non potevano offrirle alcun affetto, una persona in più in una casa già troppo affollata, circondata da gente mediocre, con ben poche possibilità di gioie domestiche e poca speranza di aiuti futuri. La sua natura allegra fu una fortuna per lei, perché un tale cambiamento avrebbe precipitato uno spirito più debole nello sconforto.
Emma non si sente per nulla serena nella casa paterna ed ogni istante trascorso in compagnia dei propri familiari le risulta imbarazzante ed opprimente, soprattutto se le visioni della propria inappropriata condizione sociale vengono condivise anche con il ricco e pretenzioso Lord Osborne, uno dei protagonisti maschili della vicenda:
Ricevere […] un ospite come Lord Osborne, insomma un nobiluomo e un estraneo, era davvero penoso. Sembrò lui stesso un po’ imbarazzato, quando, dopo esser stato presentato con disinvoltura dal suo ciarliero amico, borbottò qualcosa a proposito dell’onore che si era concesso facendo visita a Mr. Watson. Anche se Emma non poté fare a meno di considerare la visita come un omaggio rivolto a lei, non ne fu affatto gratificata. Coglieva appieno l’incoerenza di un rapporto d’amicizia di quel genere, considerato il tenore di vita modesto al quale erano costretti; ed essendo stata abituata ad uno stile di vita più elegante in casa della zia, era perfettamente consapevole di tutto ciò che, nella sua attuale dimora, avrebbe potuto esporli al ridicolo di fronte alle famiglie più ricche.
L’incompiuta tristezza del ritorno in famiglia di Emma Watson verrà ripresa da Jane Austen nel più lungo dei suoi romanzi, Mansfield Park, quando la giovane eroina Fanny Price viene allontanata da Mansfield e ricondotta a Portsmouth per qualche mese, dalla sua povera famiglia d’origine ed allontanata dagli agi e dalle ricchezze della tenuta degli zii Bertram di Mansfield Park. Il cambiamento, anche nella scrittura della Austen, è praticamente immediato:
Fanny era stordita. Le dimensioni ridotte della casa e le sue mura sottili rendevano ogni suono vicinissimo, […] la situazione era quasi intollerabile. […] Fanny non aveva niente da fare e fu felice di avere uno schermo [il giornale che Mr. Price stava leggendo] che riparasse dalla luce la sua testa dolorante, mentre sedeva assorta in una stupefatta, smarrita, mesta contemplazione. Era casa sua. Ma ahimè! non era una casa come questa, non era un’accoglienza come questa che… cercò di controllarsi; era irragionevole. Che diritto aveva lei di essere importante per la famiglia? Non ne poteva avere nessuno, lei che mancava da così tanto tempo! […] Eppure che le venisse detto e chiesto così poco di se stessa… che quasi non le venisse fatta alcuna domanda su Mansfield! L’addolorava il fatto che Mansfield e i suoi abitanti venissero dimenticati; i parenti che avevano fatto così tanto… quei cari, cari parenti!
Fanny Price non può, in una simile situazione (e nonostante tutte le numerose ingiustizie, ben descritte nelle pagine del romanzo, che s’è lasciata alle spalle nell’abitazione degli zii), non ripensare a tutto ciò che ha perduto lasciandosi alle spalle la ricca residenza di Mansfield. Ogni tentativo, da parte sua, di trovare un senso alla propria condizione è vano: Fanny non potrà mai dimenticarsi di Mansfield e dei propri abitanti (in modo particolare, non riuscirà a scordare il volto ed il carattere di Edmund Bertram, il cugino del quale ella è sempre stata innamorata); ed il fatto di rimanere in un luogo sgradevole e rozzo come Portsmouth non favorirà l’elisione di tali pensieri:
Questa era la casa che avrebbe dovuto farle dimenticare Mansfield e avrebbe dovuto insegnarle a pensare a Edmund con sentimenti di moderazione. Ma Fanny, al contrario, non riusciva a pensare ad altro che a Mansfield, alle sue felici consuetudini di vita. Tutto quello che la circondava ora, era in stridente contrasto con quei ricordi. L’eleganza, l’appropriatezza, la regolarità, l’armonia… e, forse, soprattutto, la pace e la tranquillità di Mansfield, le tornavano alla memoria ad ogni ora del giorno, per il prevalere lì, nella casa paterna, di tutto quanto si opponeva all’altra dimora. Vivere in un fracasso incessante era, per un carattere e una struttura delicati e nervosi come quelli di Fanny, un male che nessuna aggiunta di eleganza o armonia avrebbe potuto compensare completamente. Era la più grande sofferenza di tutte. A Mansfield non si udiva mai un suono di contesa, mai un alzar di voce, mai un rumore improvviso, mai un passo pesante; tutto procedeva in un flusso regolare di ordine e serenità; ognuno aveva la dovuta importanza; si teneva conto della sensibilità di ognuno.
E tutto ciò appare maggiormente evidente nell’affermazione di Fanny Price: “se Mansfield Park poteva forse offrire qualche pena, Portsmouth non sapeva offrire alcun piacere”. La tristezza di Fanny Price e della sua situazione nella casa paterna proviene, come ci viene descritto dalla Austen, non soltanto dalla condizione di miseria in cui gli abitanti vivono, bensì anche dalla scomoda presenza – quasi invadente – di un numero elevato di fratelli e sorelle, anche più piccoli di Fanny, che alimentano la sensazione claustrofobica delle pagine di Mansfield Park dedicate a Portsmouth. A proposito del rapporto di Jane Austen con la figura dei bambini, la poetessa Alice Meynell disse: “la mancanza di tenerezza e di spirito della signorina Austen è manifesta nella sua indifferenza verso i bambini. Compaiono raramente nelle sue storie, tranne che per illustrare la follia delle madri”. Sia Emma Watson che Fanny Price (nonostante quest’ultima provasse inizialmente dei sentimenti negativi nei confronti di Mansfield Park e dei suoi abitanti), vivono con estrema negatività ed insoddisfazione il loro ritorno nella dimora paterna, luogo inospitale e colmo di disagi sia in Mansfield Park che in I Watson. Con molte probabilità la scena del romanzo incompiuto è stata ripresa dalla Austen nella sua produzione successiva, dato che i punti di contatto risultano così evidentemente compatibili e che, circostanza da non sottovalutare, la storia di Fanny Price è proprio quella che immediatamente segue quella interrotta di Emma Watson. Un ultimo appunto può essere proposto in merito allo smarrimento inizialmente percepito dalla protagonista del romanzo. Tale condizione è, difatti, provata anche da Catherine Morland ne L’abbazia di Northanger; nel momento in cui ella giunge nei pressi della presunta dimora gotica del futuro suocero, il generale Tilney, le sue aspettative vengono irrimediabilmente disattese: essendo Catherine un’amante delle vicende narrate nei romanzi gotici ciò che maggiormente sperava era di potersi tuffare pienamente in una delle avventure da lei preferite. Northanger, al contrario, la deluderà parecchio:
Volgendo il viaggio al suo termine l’impazienza di Catherine di conoscere Northanger, frenata fino allora da una conversazione su vari argomenti, riprese il sopravvento e a ogni svolta della strada ella sperava con timore religioso di veder apparire, dal folto delle vecchie querce, i muraglioni di pietra grigia e splendere le alte finestre gotiche nel bacio degli ultimi raggi del sole morente. Ma il maniero era così poco elevato che ella aveva varcato le porte della cinta e già si trovava nel territorio dell’abbazia senza aver nemmeno visto un antico camino. Ella non sapeva se doveva stupirsi o meno, eppure in quel modo di arrivare c’era qualcosa di sconcertante. […] Un’abbazia! Che gioia essere veramente in un’abbazia! Ma guardandosi intorno ella dubitava che quel che aveva sott’occhi potesse confermarglielo. L’arredamento nella sua profusione ed eleganza era di gusto moderno. Il camino ch’ella si aspettava ampio e riccamente scolpito, si limitava a un Rumford con lastre di un bel marmo liscio e deliziose porcellane ornamentali. Le finestre, che ella osservò con particolare interesse perché il generale le aveva detto di averne rispettato religiosamente la forma gotica, non corrispondevano a quanto ella – nella sua fantasia – aveva immaginato. Certo l’arco era intatto e la forma era indubbiamente gotica, ma le vetrate erano ampie e chiare! A una persona che aveva sperato di trovare finestre a piccoli riquadri, con pesanti sculture in pietra, vetrate a colori, polverose e decorate di ragnatele, la realtà doveva apparire alquanto sconcertante!