“Villa Ventosa” di Anne Fine – la recensione
Più invecchio e meno credo ai cosiddetti colpi di fulmine. O, per meglio dire, ne sono ancora – raramente – vittima, ma non credo che siano destinati a esiti felici. Gli unici colpi di fulmine nei quali, tuttavia, sento di poter confidare con maggior positività sono quelli che si verificano tra me e i libri. Quello con Villa Ventosa, romanzo dell’autrice inglese Anne Fine (più nota, forse, per essere l’autrice del romanzo per bambini Mrs. Doubtfire, dal quale è stato tratto il celeberrimo film con Robin Williams) è stato un vero “innamoramento a prima vista”. Acquistato a scatola chiusa, al Libraccio di Piazza Rossetti (Genova), su consiglio della mia amica Roberta (caporedattrice di InkBooks) che ne aveva solo letto la trama, Villa Ventosa è entrato a far parte dei romanzi più belli letti, fino ad oggi, in questo 2019.
Villa Ventosa è un romanzo familiare, prima di tutto. L’autrice ci presenta, da subito, i membri della (matriarcale) famiglia Collett, composta dalla madre – Lilith – e da quattro figli, tre ragazze (Barbara, Tory e Gillyflower) e un ragazzo (William). A completare il quadro, nel corso del romanzo, saranno le figure più che ricorrenti di Caspar – il compagno di William – e di Miguel Angel Arqueso Algaròn Perz de Vega – futuro sposo di Barbara. Le dinamiche descritte nei primi capitoli ci dipingono una situazione poco equilibrata, nonché una serie di problematiche caratteriali e comportamentali materne che fanno immediatamente pensare a un probabile problema psicologico della donna – dovuto, forse, all’età. A fare da sfondo alle dinamiche sociali c’è Villa Ventosa, la residenza di famiglia che è stata teatro della crescita e dei mutamenti di tutti i Collett.
Il pretesto che dà il via alle vicende del romanzo è la conoscenza, da parte di Barbara (l’unica della famiglia a non avere, fino a quel momento, un legame sentimentale) dell’esotico Miguel Angel – che la chiede in sposa. Non credo che sia propriamente fidanzata. Secondo me sta solo accarezzando l’idea di un legame duraturo. Con queste parole, la signora Collett parla del legame amoroso della figlia, con un’insensibilità che difficilmente lascia indifferenti. Ma i rancori materni non si limitano alla “figlia zitella”: Tory, col crescere, ha assunto un fastidioso atteggiamento green, portando avanti dei moralismi da ambientalista; Gillyflower, nella sua rinomata gentilezza cela una debolezza di fondo che non può che irritare sua madre; e, infine, c’è l’omosessualità di William, mai realmente accettata, e l’inappropriatezza delle sue azioni (anche passate, come il giovanile flirt consumato nelle siepi del giardino con il cugino dai capelli rossi). In un modo o nell’altro, Lilith Collett si ritiene solo che delusa dai suoi figli: che andassero tutti affanculo […] nessun’altra espressione era abbastanza forte. In quegli ultimi anni, il giardino aveva smesso di essere un rifugio, un posto in cui nascondersi per prendere una boccata d’aria e stare sola (almeno per qualche minuto, prima di essere localizzata); era diventato una fonte di spiacevolezze, un simbolo di lotta, una scusa di cui i suoi figli dalle mille richieste approfittavano per tenerla in pugno.
Più che la casa che dà il titolo al romanzo, è il giardino a rappresentare l’elemento centrale, il fulcro attorno al quale ruotano i cambiamenti, le risoluzioni, i segreti e rimpianti. Il giardino è il teatro dello sfogo materno, il palcoscenico dove le sue pulsioni di rabbia trovano concretizzazione per mezzo dell’abbattimento degli alberi, lo sradicamento dei fiori, la distruzione del verde. Esso è anche il luogo dove le passioni proibite possono diventare realtà (si pensi alle scappatelle di William, alle proposte indecenti di Caspar, ai travestimenti e ai ritrovamenti di antichi tesori/ricordi sepolti). Infine, Barbara asserirà che metà del mio cuore è in quel giardino, a manifestare che lei come tutti siamo fatti anche dei luoghi che amiamo e che abbiamo amato, poiché diventano frammenti di spazio che continuano a vivere dentro di noi, a delineare le curve dei ricordi pulsanti. Il giardino di Villa Ventosa è strettamente correlato con la figura della signora Collett: esso (come anticipato poco sopra) è lo scenario nel quale la donna pone in essere tutte le frustrazioni represse sia nei confronti del suo ruolo di ex-moglie (il marito, infatti, è defunto) e madre. Più il giardino viene sfoltito, aggredito, snaturato, più – allo stesso modo – anche i freni e le gabbie del ruolo genitoriale della donna vengono meno. Lilith Collett si libera delle imposizioni sociali e familiari sfogando l’insoddisfazione accumulata negli anni sul verde che circonda la sua dimora (estroflessione della sua famiglia e dei legami domestici) – la stessa che sta cercando di vendere, all’insaputa dei suoi figli. Lilith Collett è Villa Ventosa, i suoi figli sono le piante del giardino da estirpare.
A mano a mano che la lettura procede si ha l’impressione che Anne Fine riesca a spiegare le ragioni che hanno portato la matriarca Collett a quello che potrebbe sembrare un esaurimento nervoso: sono arrivata su questa Terra per far felice Hector Collett? No. E il risentimento, all’inizio solo una punta era cresciuto a poco a poco come un cancro e aveva inglobato anche i figli, rendendo impossibile ciò che prima era solo difficile, e avvelenando la vita matrimoniale. Che errore quello delle donne che cercavano sempre di espiare ogni impulso di autoconservazione con ridicole profferte di un ulteriore sacrificio di sé! Il problema era che nessuna immaginava finemente e quanto a lungo la ruota della vita ti potesse sbriciolare. Sotto questo aspetto, era un po’ come il parto: se fosse possibile premere un bottone per mettere fine alla faccenda nel momento stesso in cui diventa troppo sgradevole, nascerebbero pochissimi bambini. E ben pochi arriverebbero all’età adulta se, nello stesso modo, le donne potessero dire stop nel momento in cui si rendono conto di com’è diventata la loro vita. Che affare: una vita completamente divorata dagli altri – e poi la vecchiaia. […] Devo comprare un regalo a tutti? O gli do solo un biglietto di auguri? O li uccido? Lilith affondò le dita nel terreno finché non le si conficcò dolorosamente sotto le unghie, e strappò un mazzetto di denti di leone che poi lanciò nella siepe più vicina. Non riusciva a depennare la gente dall’elenco delle tirannie neppure dopo che era morta. Per mio conto, non sarò mai né madre né donna; ma come posso non giustificare le remore e il risentimento della signora Collett (e di ogni moglie e madre – forse?) dopo un simile pensiero?
Quello che l’autrice sembra voler descrivere è il dualismo che separa l’umanità tra coloro che ad un certo punto della vita, inevitabilmente, cedono, riducendosi a candele che hanno terminato lo stoppino e coloro che – come la signora Collett – riescono a riappropriarsi del proprio tempo (precedentemente perduto). Un dualismo che separa anche i personaggi che ravvivano le pagine di Villa Ventosa, che mettono in scena una Comédie Humaine – Che strano modo di vivere la vita, impiegare metà delle proprie notevoli energie a costruire delle falsità, e il resto a costringere gli altri a crederci – nella quale riusciamo a rispecchiarci tutti e dove possiamo trovare rappresentate le nostre sfaccettature di luce e ombra – quelle che rendono speciali i personaggi dei romanzi e assolutamente ordinari gli abitanti del nostro mondo.