“L’ombra di Huma”, di Ivan Bunin – la recensione
Buon inizio di settimana lettori!
Oggi, con molta emozione e uno zaino pieno di tesori sulle spalle, vi porto una nuova recensione. Uno degli aspetti che la rende speciale è il fatto che questo articolo sancisce una bella collaborazione con Lemma Press Edizioni, una casa editrice bergamasca di cui vi ho parlato durante il mese di marzo (se volete leggere l’articolo, potete cliccare qui), che si occupa di letteratura ed editoria di qualità, di scoperte e ri-scoperte, della creazione di veri e propri gioielli editoriali – basta, infatti, prendere in mano uno dei loro volumi per tastarne la pregevolezza.
Il testo che ho avuto l’onore e il piacere di ricevere – e del quale vado oggi a parlarvi – è L’ombra di Huma, poema di un viaggiatore, di Ivan Bunin, il primo autore russo a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura. Come viene anticipato nel sottotitolo di questo libro, ciò che è contenuto tra le pagine è un vero e proprio resoconto di viaggio, scritto dall’autore sulla base delle sue annotazioni tra il 1907 e il 1911. Nessun preambolo, niente antefatti – eccezion fatta per la bellissima Introduzione di Ugo Persi – ma un’immersione totalizzante all’interno di un viaggio speziato è ciò che accoglie i lettori mentre sfiorano le pagine di questo libro. La Turchia è la prima meta e ci viene descritta attraverso la cromaticità imperante che contraddistingue ciascuna delle visioni di Bunin, i suoni che alimentano le sensazioni di magia, i sapori e gli odori speziati che ne esaltano le percezioni.
L’intero mondo è pieno di questa allegria, di danza: siamo forse noi gli unici al mondo a non sentirne il vino? Il cammello ubriaco trasporta con più facilità il suo fardello. Egli, tra i canti arabi, va in estasi. Dunque, come chiamare l’uomo che non sente questa estasi? Un asino, un ciocco secco.
Nelle partecipate descrizioni paesaggistiche di Bunin è possibile ritrovare l’eco dei diari di viaggio classici (quelli che, ad esempio, si riempivano in occasione dei Grand Tour in voga tra il Settecento e l’Ottocento nelle famiglie nobili, che lo identificavano come una sorta di rito di passaggio per i loro giovani rampolli inesperti e desiderosi di splendente novità); per quanto riguarda, invece, la descrizione delle persone che l’autore incrocia sul proprio cammino, di usanze e costumi emerge l’influenza della letteratura coloniale – con tutti i suoi pro e i suoi contro.
Se, da un lato, abbiamo infatti un fascino portato quasi all’estremo (le mille e una notte, le notti d’Oriente, l’esotico irresistibile), dall’altro ritroviamo tutti quegli aspetti di disumanizzazione e animalizzazione degli autoctoni che, da sempre, hanno tristemente caratterizzato la letteratura coloniale (da Cuore di Tenebra a Passaggio in India fino a Via col vento o alle sperimentazioni a dir poco improponibili della letteratura italiana coloniale del periodo fascista – si pensi a Piccolo amore beduino).
Il Sole – come i profumi, le tinte naturali, il firmamento in generale – sembra interessare particolarmente Ivan Bunin; pare che l’autore ne sia attratto e affascinato. Ne parla più e più volte, utilizzando metafore, descrivendone la potenza, alimentandone il mito fascinoso. Il sole è tramontato, ma anche nell’oscurità il creato vive e respira unicamente di lui. È lui a muovere l’elica del piroscafo, lui mi reca incontro il mare; lui, l’inesauribile sorgente di ogni forza che fluisce sulla terra, governa l’aspirazione, inconcepibile per il mio intelletto, del suo regno sconfinato verso l’infinito, verso Vega, come la folle gioia del delfino sfreccia sotto di me quale massa compatta di fumante fosforo azzurrino. E tutto, sulla terra, tende alla luce. […] E sopra tutto questo mare, che sulle proprie riva ha visto compiersi tutti i riti in onore del dio, i quali hanno fondamento sempre e solo nel Sole, si libra una sorta di fumo azzurro: il fumo degli incensi che vengono offerti.
L’appassionato diario di viaggio – il poema esotico di Ivan Bunin – è densissimo di affascinanti e pervasive sinestesie climaticho-cromatiche (caldo-freddo, luce-ombra, afa-respiro, …) che riescono a rendere la lettura ancora più immersiva. Si tratta, per l’appunto, di un riuscito stratagemma letterario che deve aver consentito anche ai contemporanei dell’autore di sperimentare in prima persona, per mezzo della lettura, le sensazioni e le visioni incantate descritte dall’autore russo.
A mano a mano che la lettura prosegue, non si può fare a meno di notare quanto Bunin sia stato letteralmente catturato dai luoghi visitati. Tale fascinazione è così elevata da consentirgli di personificare gli spazi e le città, affidando loro intelletto e capacità di scelta – quasi una vita propria: la Giudea non poté continuare la sua solita vita dopo tutte le sciagure che si erano abbattute su di lei. Aveva bisogno di un lungo riposo. Che sparisca dalla faccia della terra ogni suo ricordo del passato! Si riducano in polvere le innumerevoli ossa, si ricoprano di papaveri i sepolcri. Si spenga in un oblio di millenni e faccia ritorno ai tempi dei patriarchi. Ed essa vi fece ritorno.
A proposito di questo passo, inoltre, ci tenevo a sottolineare la pervasività dei papaveri; sono ovunque, in questo tour esotico. Mi sono sentito un po’ come Dorothy ne Il mago di Oz.
Ivan Bunin ci ha restituito un prezioso compendio social-culturale, architettonico e naturalistico scritto con un occhio curioso e con una cosciente cultura della diversità – in tal senso, alcuni passi sono di un’attualità incredibile. La sua opera è, a mio avviso, degna di nota, soprattutto per il periodo in cui è stata concepita, maturata e scritta (non dimentichiamoci che, di lì a pochi anni, si consumeranno gli orrori delle Guerre Mondiali, che sulla tematica della diversità crearono un’orrenda propaganda che tutt’oggi – ahimé – non cessa di sopravvivere). Sembra quasi che Bunin, per mezzo della sua domanda Cosa sta riservando al mondo, il futuro? abbia profetizzato ciò che, a breve, si sarebbe concretizzato. Forse è solo una speculazione, ma mi piace pensare che – talvolta – gli autori siano dotati di una sorta di sesto senso.
Un’ultima citazione va, ovviamente, al lavoro editoriale certosino che ci ha permesso di entrare in contatto per la prima volta con questo fascinoso diario di viaggio. Lemma Press Edizioni affianca a L’ombra di Huma, poema di un viaggiatore un corposo apparato di note, utilissimo nello scorrere delle pagine, e di un’illuminante introduzione. Un’opera che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati, s’intende, dei resoconti di viaggio, agli storici e ai sociologi; a chi desidera immergersi in un mondo speziato, colorato e altro da sé; a chi crede che per viaggiare non sia necessario spostarsi dalla propria poltrona, se si stringe tra le mani il libro giusto.